La mia storia nella via delle arti marziali e della filosofia orientale più latamente è caratterizzata da un lungo percorso, segnato da eventi che hanno dato una decisa connotazione alla mia formazione. In particolare devo sottolineare il grave incidente accorsomi all’età di sette anni che mi causò l’amputazione di due dita del piede destro e gli infortuni sportivi del 1992 e del 2004 che hanno provocato la rottura del legamento crociato anteriore di entrambe le ginocchia. Questi ultimi infortuni sono stati risolti con riusciti interventi chirurgici di ricostruzione.
Da questa premessa di primo acchito si potrebbe concludere che la sfortuna mi ha danneggiato. Io non penso questo, il mio pensiero di stampo “taoista” è nel senso di vedere in questi eventi null’altro che dei fatti che sono stati strumentali alla mia crescita. Mi spiego meglio: è sicuramente vero che da ciò ho ricevuto un nocumento fisico però è altrettanto vero che tali accadimenti hanno sviluppato e forgiato in me una alta determinazione, un forte senso di sacrificio e disciplina, il mio yi si è innalzato a livelli eccezionalmente alti, e ciò, penso, sia fondamentale per colui che decide di consacrare la propria vita al DO.
Ma procediamo con ordine: iniziai la pratica marziale con il Karate stile Shotokan nel 1985, i miei primi istruttori furono Sauro Somigli, Fabrizio Fici e Gori Massimo, negli anni che seguirono fino al 1990, anno in cui conseguii il 1° dan, mi allenai costantemente 5 volte la settimana, facendo, soprattutto con Massimo G., un lavoro di tipo amatoriale sul khion tradizionale ed i kata di base. Mi cimentai, inoltre, in competizioni di kumite sportivo, nella federazione FITAK, con alterne fortune, non avevo ancora sperimentato i frutti dell’allenamento finalizzato all’agonismo. Nello stesso periodo ebbi brevi esperienze di aikido, jujitso e taekwondo.
Gli anni dal ’90 al ’95 mi viderò seguire il M° Gori nella strada che lo portava ad aderire alla SKI-I e, quindi, ad un karate shotokan di stampo ipertradizionale. Quegli anni si dimostrarono utili, da un lato affinai la mia tecnica e compresi l’importanza della disciplina formale, dall’altro iniziai a comprendere che un karate eccessivamente rigido, quale era quello che stavo praticando, rischiava di precludere l’evoluzione nel kumite dove l’efficacia è direttamente connessa al dinamismo ed alla fluidità. Nello stesso periodo frequentavo gli stage che il M° Sauro Somigli (residente all’estero) teneva con cadenza mensile in città. Inoltre, inizia ad insegnare ai bambini del Dopolavoro Ferroviario di Firenze (dal ’98 anche gli adulti).
Nel ‘95-‘96 Sauro tornò a risiedere a Firenze, così iniziai a frequentarlo assiduamente. I miei allenamenti si intensificarono, erano con cadenza quotidiana, e in estate potei fare un viaggio-allenamento con il maestro in Indonesia. Questa esperienza fu fondamentale, si instauro in me l’idea di una dedizione all’arte marziale di tipo professionale.
Nello stesso periodo iniziai lo studio del tai-chi, sempre con il m° Somigli, e, in tale contesto, conobbi alcuni atleti provenienti dall’Izumo (Silvia del Conte, Andrea Mascaro, ecc.). Tale incontro fece si che nella seconda parte del ‘96 mi affiliassi alla Fesik come atleta dell’Izumo. Nella stagione ‘96-’97 lo sforzo fu ulteriormente intensificato, mi allenavo la mattina con Sauro e la sera all’Izumo con il M° Martinelli Fabrizio. L’obbiettivo di quel periodo era il kumite agonistico sambon. La stagione si concluse con il secondo posto ai campionati italiani (cat. -65 Kg) e la convocazione in nazionale per gli imminenti Campionati del Mondo WKC (Arezzo ’97).
L’estate del ’97 mi vide in Nepal dove assieme a Sauro e agli altri ragazzi, in qualità di co-fondatori dell’associazione di volontariato Apeiron, cercavo di aiutare i bambini di strada. Per tre mesi praticammo karate con questi bambini. Oltre che un accrescimento tecnico, l’esperienza si rivelò di grande impatto spirituale.
Nel periodo compreso dalla seconda parte del ’97 fino al 2000 mantenni la stessa intensità di allenamento. Sauro cambio il soggetto dei suoi studi, così con lui non studiavo più il kumite sportivo bensì il kata sotto la prospettiva dello studio e del controllo del corpo in movimento. Tuttavia, non abbandonai il kumite e oltre i duri allenamenti fatti con Martinelli all’Izumo iniziai a frequentare Pino Sacchi. Questo incontro si dimostro fondamentale per la mia evoluzione nel kumite e mi permise di ottenere numerosi piazzamenti nei Campionati Italiani (vittoria nel ’98 e nel ’02, e secondo posto nel ’01) oltre che la partecipazione ad altri due Campionati del Mondo WKC e due Campionati Europei.
In particolare, con Pino, oltre a trovare un ambiente ricco di stimoli agonistici, studiai per la prima volta con metodo il kumite da una prospettiva strategico tattica. Mi fu in altre parole insegnato e dimostrato che la vittoria nel kumite è determinata non solo dall’abilità tecnica (spesso ho assistito a combattimenti dove praticanti dalla tecnica sublime venivano surclassati agevolmente da altri la cui tecnica era molto più bassa) ma dal capire quando eseguire la tecnica in relazione all’avversario ed allo spazio e quindi, che il successo non può prescindere dalla capacità di creare la situazione favorevole al proprio agire impedendo, al contempo, all’altro di fare lo stesso. Terminai di competere nel 2004 a seguito dell’incidente accorsomi al ginocchio sinistro.
Negli anni successivi incrementai le mie conoscenze mediante lo studio di disciplini affini. Intensificai così lo studio del Tai Chi Chuan e mi affacciai sul mondo dello yoga e del massaggio tradizionale tailandese.
Nel Settembre del ’99 inizia la mia collaborazione con l’associazione sportiva Meeting di Firenze, qui si sviluppo negli anni a venire stabili corsi di karate per bambini, amatori ed agonisti. L’attività nel corso degli anni mi ha dato numerose soddisfazioni ed è ancor oggi il centro dei miei impegni nel settore. E’ qui che, a partire dalle mie esperienze e dai miei continui studi, cerco di profondere ad i miei allievi la conoscenza e la passione per una bellissima arte.
Dal Gennaio 2006 iniziai un nuovo percorso nel tai chi con il M° Leonardo Castelli, capo scuola centro Italia della ITCCA. Con lui inizia lo studio del tai chi stile yang tradizionale. Mai come in questo caso la parola tradizionale è stata latrice di profonda conoscenza, la reale trasmissione di una inestimabile conoscenza evolutasi nei secoli a partire dal capostipite dello stile Yang. Il valore della struttura psico-corporea, intesa come sfera completa, è stato uno spiraglio da cui ho potuto intravedere la via per elevare ulteriormente le mie capacità marziali. Lo studio è proseguito sino ad oggi, tanto che, oltre ad averne tratto giovamento anche nel karate, ho iniziato nel 2009 ad insegnare il tai-chi tradizionale yang come assistente di Leonardo.
Altra importante esperienza è stata la creazione e direzione di un corso di difesa personale per il Corpo Polizia Municipale di Firenze (2008-2009). Assieme agli amici Doddoli, Innocenti, Prosperi e D’Andrea, ognuno insegnante di vari arti marziali (karate, judo, ju-jistu, krav maga) abbiamo creato un corso su misura dell’utenza finalizzato alla limitazione degli infortuni, quindi, uno studio incentrato sulla prevenzione. Tale esperienza mi ha permesso, oltre che mettermi in gioco in una nuova sfida, di scambiare le mie conoscenza con gli amici sopra menzionati con un ulteriore spunto evolutivo per il mio percorso.
2012 nuovo infortunio grave al ginocchio, seguono due interventi chirurgici, ma, nonostante le
previsioni
scientifiche/mediche, torno in forma, segue la gioia di insegnare e combattere con i miei allievi;
qualcuno
di loro l'ho conosciuto da bambino e ora sono buoni atleti che mi danno molto filo da torcere,
questo mi
diverte molto.
L'entusiasmo permane, i miei allievi contribuiscono a questo, con la loro dedizione e cogli ottimi
risultati
sportivi conseguenti.
E' giunta l'ora di aprire una scuola, un centro in cui focalizzare tutte le nostre energie.
Con Gianni Spera fondiamo l'ASD e C Arti Marziali Firenze, nel 2014, e l'anno successivo prendiamo
in
gestione un nuovo impianto sportivo, da usufruire per evolvere noi tutti, una nuova grande
avventura.
L'avventura si sviluppa con la formazione di un gran gruppo di praticanti, dai bambini agli adulti, amatori ed agonisti. Queti ultimi danno grandi soddisfazioni, tra il 2015 ed il 2018 si registrano quattro Campioni Italiani di kumite (Loddo, Marchetti, Capizzi D. e Canovai) oltre a Davide Canovai Campione del Mondo a squadre ed Europeo, squadre ed individuale.
Visto il lavoro svolto nel Settembre 2018, la Federazione Italiana Karate, mi conferisce il grado di VI dan ad honorem.
Gli anni dal 2019, pur contraddistinti dalla tragedia della pandemia globale, vedono la scuola
rafforzarsi ed ingrandirsi. Infatti, grazie alla lungimiranza e tenacia dello scrivente e degli
altri tecnici, durante i lockdown, l'attività è proseguita sempre, a distanza, all'aperto, in
palestra con gli agonisti. Nel frattempo anche i locali della scuola sono stati ampliati.
Questo ha consentito, agli atleti della scuola, da me diretta, di ottenere molti altri titoli
nazionali ed internazionali (7 medaglie, di cui 4 d'oro, agli europei IKU 2021 e 7, di cui 1
d'oro, ai mondiali IKU 2022) cui è conseguita la mia convocazione, nello staff della nazionale FIK,
quale assistente coach per i campionati del Mondo 2022.
Inizio pratica (ininterrotta) del karate nel 1985 nella FITAK, del tai chi chuan nel 1996 con il M° Somigli.
Diploma di massaggio generale tradizionale tailandese, conseguito presso la scuola di medicina tradizionale di Wat Po (Bangkok)
Ottenimento del V° Dan
Docente di difesa personale per il Corpo di Polizia Municipale di Firenze
Assistente insegnante ITCCA scuola centro Italia
Docente Regionale FESIK
Docente federale FIK (Federazione Italiana Karate)
Docente Formatore di Karate CONI-Libertas SNAQ ( Sistema Nazionale di Qualifiche dei Tecnici Sportivi )
Vice Presidente Comitato Toscano FIK
Ottenimento del VI° Dan
Coach della rappresentativa nazionale FIK ai campionati del mondo WKC
Maestro FIK-ASC SNAQ
Assistente Coach Squadra Nazionale di Kumite FIK durante i Campionati del mondo IKU
ETSIA Gold Licence Sport Management Master Advisor - Level 7 - Area C.i
ETSIA Instructor Level 4 - Area B.i General Competence: Martial Arts; Specific
Competences: Taiji Quan
Insegnanti: Sauro Somigli, Prof. Giuseppe Sacchi, Massimo Gori, Fabrizio Fici, Andrea Pardini, Fabrizio Martinelli, H. Jiroku, Leonardo Castelli (Tai chi).
Istruttore di karate per adulti nella A.S. DLF Firenze
Istruttore di karate per gli juniores nella A.S. Izumo
Istruttore di karate per adulti e bambini nella A.S. Meeting
Istruttore di Tai Chi Chuan nella A.S. Izumo
Istruttore di Tai Chi Chuan nella A.S.D Meeting
Docente per i corsi di qualifiche e gradi (karate) per la Toscana
Consulente tecnico per il laboratorio di Tai-chi tenuto dalla Facoltà di filosofia di Siena
Allenamento intensivo personale di Karate effettuato con il M° Jiroku H. a Tokyo
Allenamento intensivo personale di yoga effettuato a Rishikesh (India)
Istruttore di Tai Chi Chuan e co-fondatore della scuola Katarsis, c/o Ass. Culturale Corte dei Miracoli (Siena)
Responsabile squadra regionale agonistica (karate) FESIK
Istruttore di karate per adulti e bambini nella A.S.D. e C. Arti Marziali Firenze
Responsabile squadra regionale agonistica (karate) FIK
Laurea in Giurisprudenza conseguita presso l'Università di Firenze
Corso di Perfezionamento in Management dello Sport presso ISEF
La società odierna si connota per l’assenza del presente, se non vissuto come un spinta verso il futuro, bisogna andare sempre avanti pensare a conquiste future, posizione sociale in continua ascesa, carriera, soldi, sempre e sempre avanti. Un accelerazione che nel suo eccesso porta a stress e malesseri psico-fisici.
Non è accettabile la indefinitezza del tempo, si vuole a tutti i costi controllare e prevedere il futuro, chi si ferma e perduto, testa e cuore sempre oltre.
Dobbiamo credere che sapremo se ci ammaleremo o meno, dobbiamo tenere, a tutti i
costi, il
controllo del corso del tempo, fino al parossismo di annullarlo.
Ossia decidere di non viverlo, provare a fermarlo.
Il rischio di avere una memoria, che racchiude i nostri sogni, tutti, realizzati o meno, che per la maggior parte siano non espressi.
Ma siamo sicuri che sia l’unico modo accettabile di vivere? Non può esserci anche un
presente che
ci veda spettatori, contemplatori della nostra commedia umana? Un presente che sia
in continuità
col passato, ora ed adesso? Ho pensato all’India, ma anche alle famiglie del sud,
che, a volte
spendono tutto il loro patrimonio, per il matrimonio della figlia. Senza pensare al
domani.
Ho capito che non è essere irresponsabili, è una diversa visione di vita, significa
che quel momento
va vissuto nella massima intensità e pienezza possibile, dando il senso ad un’intera
vita, talvolta.
Tutto in quel momento.
Direte cosa c’entra con la palestra, rispondo, c’entra nella misura in cui non comprendiamo che il momento è ora, che è inutile risparmiarsi per chissà quali ipotetiche esigenze o certezze future. Ora è un momento topico, ora dobbiamo vivere a pieno questo momento. Credendo fermamente in una rinascita e proseguimento della nostra evoluzione.
Dobbiamo mettere tutto sul piatto, pensando che perderemo nulla di più di quello che
il destino ci
avrebbe, comunque, portato a perdere. Ma di certo avremo delle grandi, belle e
soddisfacenti
stagioni di sport, di amicizia, di vita … porterà ad accrescere la nostra
memoria.
Ricordi di passi avanti, ricordi di soddisfazioni, ricordi di sfide difficili
affrontate a viso aperto che
abbiamo accettato.
Nonostante tutto.
Enrico Vivoli
La storia quotidiana di questi giorni mi ha richiamato alla mente un’antica storia,
un aneddoto che si
riferisce a Matsumura Sōkon (松村 宗棍Shuri, 1793-1899) primo grande Maestro del
karate.
Vedo un'ansia dilagante, un condizionamento imperante, in molte delle persone che mi
circondano. Parlo
della crisi pandemica, ovviamente.
Noto che i condizionamenti psicologici sono stati tanti e ripetuti, tali da
condizionare il libero arbitrio,
la coscienza e la consapevolezza propria, di molti amici e conoscenti.
Sempre più spesso, vedo persone che hanno paura di vivere e perdono nella sfida
della vita,
senza combattere, ormai, convinte di non aver speranza di riuscire.
Come il povero Toro protagonista della storia che segue (una delle numerose
versioni):
Matsumura e il toro
Un episodio che lo rese famoso accadde durante il regno del Re Sho Ko che, ricevendo
in dono
dall’Imperatore un toro magnifico, decise che avrebbe voluto vedere il proprio
miglior esperto
di arti marziali Sokon Matsumura misurarsi con l’animale. Sentendo la notizia
Matsumura decise di non
lasciare nulla al caso. Fece quindi visita alle stalle reali e chiese di vedere il
toro, lo fece
legare saldamente dallo stalliere, e quando vi fu davanti con uno spillone,
improvvisamente
apparso sulle nocche, cominciò a pungere l’animale sul naso, la reazione
dell’animale fu furiosa e
Matsumura soddisfatto si allontanò per ritornare nei giorni seguenti in modo che
l’animale
cominciò a riconoscere la sua figura e ad averne timore. Il giorno del
combattimento, una gran folla
era assiepata nell’arena, il toro, un animale veramente magnifico, sbuffava e si
agitava minaccioso,
quando Matsumura entrò avvicinandosi, l’animale riconoscendolo fece dietro front e
uscì dall’arena.
Nessuno aveva mai visto nulla di simile, vincere senza combattere! Il Re dichiarò
che Matsumura,
per la sua abilità nelle arti marziali, poteva fregiarsi del titolo di ’’Bushi’’. Un
tale onore era
la prima volta nella storia dell’isola di Okinawa che veniva assegnato.
Ora, una prima e più immediata lettura ci fa soffermare su Matsumura, la sua vittoria, che parrebbe, poi, non troppo nobile nè eroica.
Ma proviamo ad andare oltre, tralasciamo il Maestro e le sue virtù tattiche strategiche – evidentemente non affronta il toro a testa bassa come il primo istinto vorrebbe, ma trova una prospettiva diversa – proviamo, piuttosto, a vederla dalla parte dello sconfitto, per provare ad imparare qualcosa, il Toro.
Il Toro, poveretto, sebbene molto, molto, più forte, di fatto invincibile in campo libero, oramai ha subito un condizionamento tale, un trattamento che gli annebbia la ragione, rende cieco il suo intelletto e, pur potenzialmente libero di agire, si ritira, senza provare ad affrontare la sfida, ucciso dall’ansia che cova nel petto.
Credo che sempre, ma ancor più in questi tempi, ove siamo martellati, incessantemente, da notizie di paure ignote, di pericoli invisibili, di richieste da ritirarsi chiusi in casa, sia giusto tutelare la propria ed altrui salute, ma sia doveroso, altresì, mantenersi lucidi, non cedere alla paura e lottare per continuare a vivere, non accontentandosi della sopravvivenza.
Enrico Vivoli
La Libertà è un ideale, giustamente, desiderato e ricercato da tutti noi.
Credo che la Libertà maggiore di un individuo consista e possa essere valutata nella
sua
capacità di autodeterminazione, la capacità di guidare, almeno in parte, la propria
vita; la
possibilità di scegliere, di sbagliare e di aver successo; la possibilità, per
ognuno, di
essere artefice delle proprie emozioni.
Ebbene, per avvicinarci a questa possibilità, ritengo che l’individuo debba
sviluppare tre
elementi fondamentali:
Senza uno di questi tre elementi non si realizza la piena Libertà. Devono
coesistere, tutti,
contemporaneamente.
Solo in questa condizione si potrà provare a vivere realmente liberi.
Noi, in qualità di insegnanti di karate-do, proviamo a mettere lo zampino nel primo dei tre elementi sopra enunciati. Cerchiamo di contribuire ad innalzare il livello di conoscenza (conoscenza di sé e degli altri compagni di allenamento, di gara), di esperienza (situazioni nuove, viaggi e trasferte, affrontare i problemi e le difficoltà imparando a risolverli) e cultura (filosofia orientale).
Sentiamo di avere un ruolo importante, che rende sacre le rinunce personali che spesso dobbiamo compiere, un ruolo di privilegio, che tramite il rapporto con in nostri allievi e allieve rende la nostra vita luminosa e consente a noi stessi di vivere con giusto orgoglio, con fierezza.
I nostri amici animali, con esclusione di cani e gatti che hanno un gran rapporto di dipendenza ed amore con gli umani, quando vivono in cattività, costretti ad una vita che non permette loro di compiere le attività che il loro essere, i loro geni e il loro spirito richiedono, devono vivere una vita ricca di privazioni, magari anche lunga, ma penosa.
“La noia è la vera nemica dei nostri prigionieri, proprio come lo è per gli animali dello zoo o per quelli degli allevamenti intensivi. Nulla da fare, nessun comportamento etologicamente naturale, costretti in un tempo che non passa mai e che alla fine porta ad assumere comportamenti ossessivi, ripetuti, stereotipati. Un sintomo chiaro di disagio e sofferenza causata proprio dal trascorrere ore sempre uguali, non scandite dagli eventi naturali. Senza poter utilizzare ingegno e fantasia”.[1]
Una brutta bestia la noia, Leopardi ben la descrive; “Chi dice assenza di piacere e dispiacere, dice noia... La noia corre sempre e immediatamente a riempiere tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in natura secondo gli antichi.”[2]
Oggi siamo chiamati ad un compito molto complesso. Queste tristi richiami servono a
costringermi a mantenere alta la concentrazione. In questo momento siamo chiamati,
da un
lato, ad essere responsabili, ricchi di senso civico e rispetto delle Istituzioni,
compiere
doveri, innaturali, di distanziamento che sottendono la rinuncia a valori
fondamentali
dell’essere umano (è inutile che li elenchi, credo ognuno lo sappia bene, lo viva
sulla
propria pelle).
Dall’altro lato dobbiamo essere responsabili, allo stesso modo, verso noi stessi, i
nostri
cari, la società, cercando di non abbrutire la nostra anima, il nostro spirito.
Dobbiamo
esortarci a mantenere vitale la nostra essenza più elevata, la nostra capacità di
essere
empatici col mondo esterno, la nostra curiosità verso il nuovo, la nostra voglia di
esplorare, di ricercare, di creare nuovi legame ed approfondire quelli esistenti, di
rafforzare la sfera delle emozioni positive.
L’arte marziale e lo sport insegnano la disciplina. Chi pratica sa bene quanto
costa, quante
volte l’individuo si deve “forzare”, quante volte interiormente assistiamo ad un
conflitto
tra i nostri io, “- allenati! - non mi va! Ancora 10 balzi! - noo basta!”. Questa,
che al
profano può sembrare una violenza, in realtà è un esercizio di libertà. E’ un
allenare il
nostro spirito a mantenersi indipendente, il più possibile autodeterminante. E’
affinare la
capacità di resilienza alle difficoltà, innalzare il livello dello zanshin (in
giapponese) o
dello yi (in cinese).
Ci alleniamo a non andare alla deriva, quando le acque si fanno agitate e le
correnti forti.
Ricchi di questa consapevolezza, vi esorto a non lasciarsi andare, in questo triste
periodo,
alla noia, all’apatia, ad una pericolosa e nervosa deriva. Proviamo, forziamoci a
mantenrci
attivi, vitali. Le cose non vanno bene in questo momento, non possiamo mentire.
Ciononostante, dobbiamo vivere, cercando di mettere in atto quanto appreso con la
disciplina
dello sport e dell’allenamento, dobbiamo essere determinati ad andare avanti, passo
dopo
passo, lungo la strada della nostra evoluzione. Attivi. Emozionati.
L’angoscia, l’ansia che ci colpisce in questi giorni è sotto gli occhi di tutti. La situazione è seria, a differenza di altre volte, però, molti di noi, non essendo ancora toccati dal virus, direttamente, hanno difficoltà a focalizzare il tutto. Questo crea ancor più ansia, il timore di un nocumento non definito ai sensi, spesso, annebbia la vista portando ad atteggiamenti irrazionali, in entrambi i sensi; si pensi a chi va più volte al giorno a fare la spesa o, al contrario, a chi rifiuta di parlare ad un conoscente, anche a 3 mt di distanza.
Credo che dobbiamo provare ad essere lucidi e coraggiosi al contempo. Penso che, razionalmente, sia doveroso seguire, scrupolosamente, le indicazioni che ci vengono fornite da medici e Istituzioni. Per noi stessi e per tutti gli altri. Con la stessa razionalità e forza, penso, anche, che dobbiamo comprendere che la vita andrà avanti, non è tutto finito, anzi, agli sconvolgimenti, alle cadute, seguono sempre riprese, costituzioni di nuovi equilibri.
Ora ci siamo abituati ad una routine quotidiana dorata, di falsa sicurezza. Pensiamo
a chi
nacque i primi del ‘900 e nell’arco di una vita, qui in Italia, a Firenze passò
attraverso
due guerre mondiali. Essi non stettero a piangersi a dosso, andarono avanti,
evolvendo loro
stessi e la società in cui vivevano. A questo dobbiamo il nostro benessere. Possa
oggi,
questo esempio, esserci d’ispirazione. Finirà.
E, quando finirà, ci sarà chi avrà peggiorato la propria condizione, non per la
malattia,
ma, perché, travolto dalla negatività, si sarà introflesso. Ci sarà chi avrà avuto
la forza
di mantenersi. Ci sarà, addirittura, chi avrà colto, nel tragico momento, la
possibilità di
migliorarsi e crescere, studiando, allenandosi, meditando, aumentando le percezioni,
la
consapevolezza ecc. Il tutto nel rispetto delle indicazioni fornite. Ebbene, essi
faranno un
gran bene alla società intera, società che avrà uno spasomodico bisogno di ripartire
e,
perciò, di alfieri che, in prima linea, la guidino. Faranno, inoltre, del bene a se
stessi
se riusciranno ad uscire più forti, dopo un momento critico come questo; da un punto
di
vista personale, avranno mille opportunità in più di affermarsi socialmente e
professionalmente, umananmente saranno cresciuti.
Cautela, Coscienza ma anche Fortezza e Lungimiranza.
Enrico Vivoli
Le arti marziali gli hanno dato grandi soddisfazioni personali, ma soprattutto gli hanno permesso di apprendere una filosofia di vita, di trovare un equilibrio. E di fare un viaggio che lo ha cambiato per sempre...
Cosa succede se tutto quello per cui hai studiato si scontra con la tua più grande passione? Ascoltare il cervello o il cuore? A un certo punto della propria vita, Enrico Vivoli si è trovato a dover fare questa scelta, e l’ha fatta mosso da una convinzione: “Il karate e le arti marziali sono più di uno sport, sono una vocazione”. Proprio in questi termini si esprime Vivoli, nazionale di karate, che dal 2004, in seguito a problemi al ginocchio sinistro, ha cessato la propria carriera da atleta per dedicarsi completamente all’insegnamento.
Come ha iniziato a praticare le arti marziali?
Per caso: avevo 15 anni e praticavo tennis. Poi, un giorno, mi è venuta la curiosità
ed
eccoci qua.
Cosa ricorda dei primi anni?
Nell’85 ho iniziato alla palestra Samurai in via Corelli col maestro Sauro Somigli.
Lui mi
ha trasmesso la passione per il karate, ma anche per il tai-chi. Dal ’96 ho iniziato
a fare
anche l’allenatore dei bambini al Dlf, e dall’anno successivo c’è stato il salto di
qualità.
Salto di qualità?
Sì, ho iniziato a praticare questa disciplina a livello agonistico: questo mi ha
permesso di
diventare diverse volte campione regionale e, nel ’97, vicecampione italiano. In
quello
stesso anno sono stato convocato in Nazionale e ho fatto un viaggio che mi ha
cambiato per
sempre.
Di che viaggio si è trattato?
Con la Fondazione Apeiron siamo stati chiamati ad andare in Nepal per insegnare le
arti
marziali ai bambini di strada, un’esperienza che mi ha toccato profondamente.
E poi cos’è successo?
Sono tornato in Italia e, dal ’98, ho iniziato ad allenarmi con un campione come
Giuseppe
Sacchi, che mi ha aiutato a diventare campione italiano. Poi, da lì, il bivio.
Bivio?
Sì, perché proprio in quel periodo mi sono laureato e ho iniziato a fare il
praticantato.
Cominciai a rendermi conto che se avessi fatto l’avvocato avrei dovuto trascurare la
mia
vocazione: le arti marziali. Allo stesso tempo, però, non volevo sporcarle.
E come ha risolto?
Per fortuna nel 2000 ho vinto un concorso che mi ha permesso sia di mettere a frutto
la mia
laurea, che di avere un po’ di tempo libero.
Oggi dove insegna?
Dal 2000 insegno alla Meeting e sono felice, perché anche grazie ai miei
collaboratori
(Lorenzo Raguzzi, Antonello De Lorenzo e Gianni Spera) siamo riusciti a coinvolgere
giovani
di una fascia di età difficile come quella che va dai 15 ai 26 anni.
Cosa cerca di insegnare ai suoi allievi?
Che per poter squilibrare l’avversario prima di tutto devi essere in equilibrio, ma
soprattutto che per combattere devi aprirti all’altro e conoscerlo. Penso che
aprirsi e
conoscere siano due principi fondamentali anche per la vita.
di Carlo Marrone, febbraio 2010 - Il Reporter
Trovarsi di fronte a un avversario vuol dire anche fare i conti con la propria
personalità, misurarsi, conoscersi. L'arte marziale mette chi la pratica sul lungo
percorso della conoscenza di sé.
In che senso combattere aiuta a conoscere se stessi? Lo chiediamo a Enrico Vivoli,
Campione italiano FESIK, docente di difesa personale, maestro di tai chi chuan e
autentico artista marziale.
Combattere l’altro è conoscere se stessi?
Crescere significa anche mettersi in discussione. Gli dei, per definizione, nascono
perfetti. Essere uomini implica confrontarsi. Sul tatami* si riproduce questo
incontro di natura conoscitiva: durante il combattimento l’individuo impara a essere
presente rispetto a se stesso e all’altro. Per trovare l’asincronismo che porta al
colpo vincente si deve prima percepire il sincronismo; su un piano esistenziale, ciò
vuol dire sviluppare il proprio modo di stare al mondo per poi poter “andare
insieme” con altri individui diversi da te.
Praticando uno sport diverso dalla disciplina marziale, che
sia il nuoto o la corsa o altro, non si potrebbe ottenere il medesimo
risultato?
Le arti marziali consentono di accogliere paure ataviche (dolore, morte), che ci
appartengono da sempre. Gli sport inducono alla disciplina e in questo senso possono
essere propedeutici. Ma nelle arti marziali si fa i conti con la possibilità di
soccombere e quindi si rinuncia all’attaccamento cieco alla vita in favore di un
senso pieno dell’esistenza. Questo è il significato di frasi come “prima occorre
uccidere se stessi” che solo la pratica può riempire di senso.
Come ti sei avvicinato alle arti marziali?
Avevo 16 anni, all’epoca prevaleva una certa tendenza a esaltare l’aggressività
fisica. In gara tutto ciò si riproduceva sottoforma di una sorta di ansia da
prestazione. Di per sé però la preparazione su un piano fisico non è totalmente
negativa: t’insegna a sviluppare la reazione anche quando lo scontro può apparire
impari e quindi consente di evolvere la propria intelligenza, cioè adattarsi, senza
fuggire.
La paura davanti a una scelta importante è simile a quella del
colpo che si muove veloce contro la tua direzione?
Alla parola “paura” preferisco il termine “emozione”.
Allora, diciamo quel tipo di emozione che se non la gestisci
ti blocca.
In gara è un limite che nasce non tanto dall’idea di prendere colpi, ma dal timore
di non arrivare a darli e farsi governare dal panico di fallire. Da un’eventuale
sconfitta, si devono trarre spunti per il miglioramento.
Bruce Lee, atleta marziale, filosofo, poeta, uomo di grande
energia cerebrale, afferma: Non temere l’uomo che ha praticato 10 mila calci una
volta, ma temi l’uomo che ha praticato un calcio 10 mila volte. Quale credi sia
il senso profondo della frase?
La frase va oltre il concetto propedeutico, il fatto che nell’allenamento ci voglia
costanza. La costanza è in quelle 10 mila volte. Ma c’è altro, ovvero quel calcio
che è unico ogni volta che viene ripetuto. In altre parole, un calcio vissuto a
pieno e in modo unico ogni volta, per 6000 volte.
Nell’arco temporale 1997-2000 circa eri nel pieno della tua
stagione agonistica e nel frattempo ti laureavi in giurisprudenza. A un certo
punto hai dovuto scegliere tra l’attività forense e la carriera da
atleta?
Ho studiato giurisprudenza con passione. C’è stato però un momento in cui la scelta
era d’obbligo. Ero in Thailandia, praticavo tai chi chuan con un maestro tedesco e
meditavo. Questo mi ha consentito di avere la mente pulita per poter scegliere. E ho
scelto un lavoro che mi garantisse indipendenza economica, una vita dignitosa e la
possibilità di dedicare tempo all’arte marziale, la mia passione, che dunque è anche
la mia vita, in due parole, sono io.
Se non ti fossi procurato quello spazio meditativo, non
avresti forse avuto il silenzio per ascoltare una risposta che avevi dentro te
come spesso purtroppo accade?
La capacità di cambiare strategia quando ti rendi conto che ciò che stai facendo non
è aderente al contesto, a te, questa abilità è importantissima. A volte si è ciechi,
ci s’intestardisce, altre volte s’intuisce che è il momento di cambiare, ma manca il
coraggio di farlo. Invece c’è un momento preciso in cui il pugno va sferrato, la
scelta va presa. Senza timore.
L’arte marziale è spesso accostata al mondo maschile. Eppure
la tradizione delle arti marziali è ricca di storie incentrate su eroine
leggendarie, sacerdotesse di straordinario afflato spirituale e capacità fisica.
Secondo te a cosa si deve questo scarto avvenuto nella modernità?
Persone molto più preparate di me in ambito sociologico saprebbero rispondere a
questa domanda. Io credo sia il risultato di un andamento sociale che obbedisce
all’urgenza di fabbricare stereotipi e dunque incollare dei ruoli precisi sui
diversi sessi imponendo strutturalmente certe emozioni.
Intervista a Davide Canovai, vicitore di due medaglie d'oro ai Campionati Europei di Karate IKU svoltisi in Romania, Timisoara dal 19 al 22 Maggio 2016.
Nella nostra associazione sportiva dilettantistica “Arti Marziali Firenze” siamo stati convocati in nazionale in due: io e Lorenzo Marchetti, attuale Campione Italiano di Karate per la sua categoria, che, in Romania, ha conquistato la medaglia di bronzo.
In loco sono stato scelto per far parte della squadra di combattimento che ha rappresentato la nostra nazione; ho partecipato così a due competizioni, individuale e a squadre, riuscendo a portale a successo entrambe.
Questo per me è significato, al contempo, aver coronato una lunga serie di impegni e sforzi, fin da quando ero bambino, e aver maturato la consapevolezza che molte altre sfide mi si presenteranno e dovranno essere affrontate a viso aperto.
Da anni ti dedichi costantemente alla pratica sportiva del
karate, cosa ti affascina di questo sport?
Il karate, come pochi altri sport, si caratterizza per essere uno sport completo in
quanto con esso si sviluppano tutte le capacità condizionali, con particolare
rilievo alla capacità coordinativa. Il fatto che sia uno sport veramente completo ha
importanti ricadute positive in termine di benessere fisico e psichico.
Come si svolgono le lezioni karate?
Le lezioni di karate si incentrano sullo studio del kata, che consiste in una
sequenza di tecniche prestabilita, nel nostra stile, lo shotokan, ne esistono 26 e,
tra l'altro, sono fondamentali per passare di grado. Poi, durante gli allenamenti,
facciamo khion, che è l'esercizio delle singole tecniche, ed il kumite, che è il
combattimento, vero e proprio.
Questa è la specializzazione che preferisco. Infatti, durante la pratica del
combattimento si sviluppano e si esprimono, maggiormente, valori quali la lealtà, il
coraggio e lo spirito di sacrificio. Tengo a precisare che, tra gli sport, le arti
marziali si caratterizzano per esprimersi mediante la simulazione (nel senso che ci
sono regole volte a tutelare la sicurezza dell'atleta) di un confronto fisico
diretto, con scambi di percosse, atterramenti ecc.
Dalle tue parole le arti marziali sembrerebbero essere più che
uno sport, puoi spiegare meglio?
Come dicevo, il combattimento richiede un duro confronto con un avversario, ma
confrontarsi significa, non solo prevalere su l'altro, vuol dire anche relazionarsi
e rapportarsi con l'avversario; per far questo è necessario conoscere chi ci sta
davanti, ma, affinché ciò sia possibile, è indispensabile conoscere se stessi.
Combattere è un grandissimo lavoro di introspezione. Inoltre, fare kumite, nel
karate, richiede, necessariamente, lo sviluppo di un forte autocontrollo e della
capacità di vincere paure antiche, come quella di essere “picchiato”, questo nella
vita si traduce nella capacità di gestire le proprie emozioni negative e nel
coraggio di fare scelte che, inizialmente, possono sembrare troppo impegnative.
Sappiamo che sei un ottimo studente, come è possibile
conciliare lo sport agonistico con lo studio?
Come ho già detto, se si sviluppa una giusta dose di coraggio è possibile
intraprendere scelte che, apparentemente, sembrano molto difficili; ho deciso di
affrontare le difficoltà derivanti dal conciliare l'impegno severo degli studi
liceali e dello sport agonistico con entusiasmo, non dando ascolto alle paure che mi
dicevano che non sarebbe stato possibile.
Dove pratichi? Ci puoi parlare del tuo gruppo sportivo?
Mi alleno con l'associazione dilettantistica “Arti Marziali Firenze”, nella palestra
situata in via Fracastoro. L'impianto sportivo è da poco aperto, circa due anni, ed
è dotato di tutti i comfort e attrezzature necessarie per svolgere questa attività.
Il mio maestro è Enrico Vivoli, il quale è coadiuvato da Gianni Spera. Grazie ai
loro continui sforzi in questi anni si è formato un affiatato gruppo di atleti
praticanti, tra i quali moti partecipano alle competizioni con successo.
M° Enrico Vivoli
Ogni individuo per conseguire un obiettivo deve profondere risorse, energie proprie. Il successo sarà ottenuto se l’energia dell’individuo sarà sufficiente in termini assoluti e se questa verrà utilizzata al meglio, soprattutto, se per raggiungere il risultato sarà richiesto un grosso sforzo.
L’intera vita può essere vista in tale prospettiva, un intercedere continuo di mete
da raggiungere che richiedono l’utilizzo delle proprie risorse.
Il singolo individuo, nel suo percorso evolutivo, dovrebbe tendere a variare
obiettivi, magari individuandone di sempre più elevati ed impegnativi e, quindi, con
una fase di gestione delle risorse che si farà sempre più complessa.
Nella vita, l’uomo, plausibilmente, si dovrà cimentare su plurimi campi di battaglia
contemporaneamente – si pensi ad esempio: famiglia, lavoro, sport, studio, salute,
ecc.
Per riuscire si potrà operare in due direzioni, accrescere la quantità di energia
disponibile e imparare a gestire le risorse possedute.
La pratica delle arti marziali e la preparazione al combattimento potranno risultare
di fondamentale importanza per lo sviluppo di tali capacità. Infatti, il
combattimento si connota per una peculiarità: quella di un confronto “speculare” con
un altro individuo; entrambi i combattenti si cimentano in una pratica che si
estrinseca nel tentativo di consumare le energie dell’altro utilizzando la propria
energia, oppure, per cambiare prospettiva, lo scopo della pratica può essere visto
come il tentativo di preservare le proprie energie a scapito dell’altro.
In tale “gioco” la difficoltà consiste, in modo particolare, nel dosare al meglio la
profusione di risorse. Basti pensare che se l’utilizzo di energia sarà eccessivo si
assisterà ad una dispersione di risorse, con facile vittoria dell’avversario. Ma
anche in caso di eccessivo risparmio di energie (o incapacità a sviluppare il
proprio potenziale di risorse) si rischierà la sconfitta, infatti, l’avversario, di
pari capacità, riuscirà a prevalere con l’utilizzo ottimale del proprio potenziale.
Tale meccanismo, che risulta nella pratica marziale palese e manifesto, si attuerà
sia nel singolo confronto, sia nell’intero arco di una competizione strutturata in
più confronti. Lo stesso accadrà nella vita di tutti i giorni, una corretta gestione
del proprio potenziale consentirà di conseguire, al meglio, il singolo obiettivo
così come di perseguirne più di uno sia contemporaneamente che in successione
temporale.
In tal senso la pratica e l’allenamento al combattimento marziale, sia a livello
induttivo, con anni di esperienza diretta tramite continui confronti con compagni di
allenamento e con la partecipazione a competizioni, sia a livello deduttivo,
mediante uno studio metodico ed articolato della strategia e della tattica di
combattimento, col supporto di Maestri adeguatamente preparati, potrà aiutare ogni
singolo essere umano al raggiungimento della propria evoluzione nella vita, potrà
aiutare ognuno sulla strada del miglioramento continuo del sé, con ciò rendendoci
più facile la strada verso il conseguimento del traguardo finale: la felicità.
M° Enrico Vivoli
L'approccio allo sport ed in particolare alle arti marziali oggi avviane al fine di
conseguire, almeno per i più, un benessere fisico e psichico.
Questo è un assunto difficilmente contestabile.
Dovremmo porci una domanda scontata ed allo stesso tempo non fondamentale, quale è
il concetto di benessere che vogliamo ricavare?
Cosa cerchiamo da queste attività? Benessere fisico, sicurezza, centratura emotiva?
Penso che, quanto meno nel caso delle arti marziali, e, comunque, in ogni sport, si
ricerchi un benessere che vada oltre il piano fisico.
L'adepto marziale, lo sportivo appassionato, cerca la pace, intesa come equilibrio
dello spirito, si parla quindi di spirito, e non di materia, per essere felici; la
materia può essere comprata la spiritualità no.
ELEVARSI NELLO SPIRITO, cosa vuol dire?
Penso che la prima risposta, cui un modesto praticante, quale io sono, possa
offrire, sia che è la rinuncia alla materialità.
Ora è noto ai conoscenti, anche solo per cultura, che il Do, inteso come via del
Guerriero, a prescindere dall'arte, insegna a vivere la morte fisica come una
possibilità accettabile, d'altronde è altresì noto che l'accettazione della morte è
un momento fondamentale per qualsiasi guerriero; la rinuncia all'emotività, che
potrebbe essere essa stessa il motivo principe della Ricerca.
Ma cosa vuol dire tutto questo oggi?
La domanda è fondamentale per tutti coloro che praticano o studiano sport ed arti
marziali; la questione è questa: ogni santo giorno sacrifico il mio corpo e la mia
essenza fisica, per cosa?
Risposta: tramite la Disciplina mi eleverò nello spirito rinunciando alla materia,
sarò un Uomo migliore.
Lo Spirito, penso, sia in antitesi con la materia, quindi, chi si appresta a
percorre la via del Do dovrebbe essere pronto alla rinuncia, per quanto possibile,
alla materia.
Rinunciare alla materia cosa può voler dire per uno sportivo materialista?
Rinunciare ad immobili, grandi averi o più modestamente a dei denari per
sovvenzionarsi gli allenamenti? Questa soluzione è molto difficile ed allo stesso
tempo facile nella società odierna, dove tutto ha un prezzo. Lo ha anche
l'elevazione spirituale? Quanto siamo disposti a pagare per la cosa più sacra che
appartiene a questo piano esistenziale? Quale è l'offerta più importante che
potremmo immolare alla via della spiritualità?
La risposta è Donare il nostro vissuto terreno, di conseguenza, in rapporto minore,
l'integrità fisica.
E' noto che ogni passo evolutivo, ogni conquista, vittoria debba, per essere
riconosciuta tale, essere stata bagnata dal rituale sacrificale del protagonista di
turno. Sacrificio, sacrificio, sacrificio, non una cosa da evitare, ma qualcosa da
accettare a cuore aperto, perché è un grande momento di crescita, di rinascita. Un
grande passo in più verso lo spirito puro.
Ci domanderemo quale sia il concreto significato di tutto ciò; la risposta è
semplice ed allo stesso tempo dura: colui che affronta la via dello sport ed ancor
più del Guerriero, deve essere pronto a cedere. Cosa? Deve rinunciare al proprio
piano materiale, tendendo alla visione artistica dei Maestri di Arti (marziali), o
ci siamo dimenticati che di Arte parliamo. Maestria significa non solo perfezione
rispetto ai canoni noti, ma, sopratutto, capacità creativa, elevazione dagli
standard.
L'infortunio. Cavolo non ci voleva! Penseremmo; ma, a pensarci bene, potremmo
arrivare alla conclusione che è qualcosa di essenziale, una piccola rinuncia al se
materiale (corpo) in cambio di una Elevazione spirituale, un vero Sacrificio, dove
per esso non si intende un termine perverso, di dolore senza scopo.
Con questo Sacrificio intendiamo rendere importante, Unico per noi, un percorso, un
cammino, un Do verso l'Elevazione dell'Anima che noi marzialisti, sportivi, o
semplicemente uomini, altrimenti, non raggiungeremmo mai.
Prendendo spunto da un quesito cui ho recentemente risposto, mi appresto a fare alcune riflessioni su tradizione e sport in seno alle arti marziali. In premessa gradirei, comunque, proporre la risposta al quesito menzionato: chi è adatto alla pratica dell’arte marziale.
R:- “Il quesito proposto sembrerebbe semplice e chiaro, ma in realtà non lo è.
Infatti, più che porsi potenziali limiti per eventuali deficit fisici, dovremmo
meglio analizzare cosa si intende per arte marziale e relativa pratica e
consequenzialmente le finalità ricercate".
Dobbiamo per prima cosa definire “la pratica di arte marziale”, con essa intendiamo
una pratica rigorosa, assidua e continua volta ad acquisire una seria attitudine
marziale? O una pratica meno rigorosa che ispirandosi alle discipline marziali,
adattandosi alle esigenze della grande platea odierna, sia finalizzata al
miglioramento dello stato psico-fisico individuale?
Questa prima distinzione è importante, direi imprescindibile per una corretta
risposta.
Partiamo dall’ultima ipotesi considerata, a parere dello scrivente, una pratica
marziale “adattata” è praticabile da tutti, proporzionalmente all’indole di ognuno.
Certo è che, essendo questa da considerare una sintesi, una sfumatura tra arte
marziale pura e disciplina di benessere, avrà utilità per il praticante se
l’esigenza dello stesso si colloca in tal senso.
Per spiegarsi meglio: sarà attinente se si cerca qualcosa che abbia benefici
psico-fisici, unitamente ad una parte di aspetto marziale più apparente che reale,
il quale potrà comunque essere una suggestione positiva per molti.
Certo tal tipo di praticante dovrà essere consapevole dei limiti di questo tipo di
attività che sono: da una parte la consapevolezza di non aver appreso un reale
contenuto marziale e dall’altra che esistono discipline volte al miglioramento del
benessere psico-fisico più valevoli ed efficaci (yoga, pilates, ecc).
Se si cerca, invece, una pratica volta allo sviluppo di reali attitudini marziali,
si dovrà essere consapevoli che questa porterà benefici che, tralasciando l’aspetto
pragmatico di elevare la capacità di autodifesa, saranno prioritariamente
spirituali. Questa esperienza sarà, infatti, connotata da un grosso sacrificio
fisico, psichico e di tempo. Per raggiungere risultati in tal senso si dovrà offrire
una totale dedizione, la quale richiederà molto tempo personale (con conseguenti
rinunce), richiederà di accettare la possibilità di compromettere parzialmente la
propria salute fisica, richiederà di mettere allo scoperto le proprie paure ed
insicurezze. Questa rigorosa disciplina, che richiama le virtù dell’ascetismo,
consentirà, a chi lo ricerca, una forte elevazione spirituale, la quale, tuttavia
avrà un costo non irrisorio.
Tanto premesso credo che in questa seconda ipotesi, la pratica marziale non sia per
tutti, ma non distinguendo sulla base di condizioni fisiche di partenza, piuttosto
facendo una distinzione sulle base delle capacità volitive – risolutezza (forza
decisionale), autocontrollo, coraggio, perseveranza, concentrazione, attenzione
sostenuta e volontà – del singolo individuo.”
Viste le considerazioni di cui sopra, vorrei traslare il piano della riflessione
sulla dicotomia odiernamente oggetto di molti dibattiti, ossia sulla distinzione tra
arte marziale tradizionale e sport. E’, infatti, vero che oggi molti insegnanti
lanciano proclami avvertendo come la loro sia la vera, unica, genuina, arte marziale
in quanto direttamente ricollegabile alla relativa tradizione.
Ma proprio partendo dalla definizione di arte marziale cui mi riferivo nella
risposta al quesito dovremmo chiederci a quale tradizione ci riferiamo quando
parliamo di arti marziali?
La risposta non è così scontata, dobbiamo, infatti, essere consapevoli di come
quella che per molti è la tradizione antica in realtà si tratta di un adattamento
moderno di conoscenze marziali. Prendiamo ad esempio il karate, la tradizione che si
riferisce a Funakoshi risale ai primi decenni del ‘900, l’onorato Maestro prosegui
un lavoro di adattamento delle conoscenze marziali, potenzialmente letali,
nipponiche, con il preciso scopo di creare una ginnastica marziale adatta ai più, da
proporre nelle scuole come educazione fisica.
Tale lavoro comportò una standardizzazione tecnica, una semplificazione volta a
facilitare l’esecuzione e ad eliminare le tecniche più pericolose, a ciò segui una
cristallizzazione delle conoscenze.
L’arte marziale precedentemente era appannaggio di pochi, in quanto volta al reale
confronto, spesso con esito fatale di uno dei contendenti, era una vita connotata da
disciplina severissima (si pensi a Musashi). Le conoscenze erano in continuo
divenire, non esisteva standardizzazione in quanto la tecnica si doveva modellare
sul praticante-guerriero.
A quale delle due tradizioni dobbiamo allora riportarci quando ci riferiamo, per
esempio al karate tradizionale?
Ad avviso dello scrivente se si intende l’arte marziale adattata, cui mi riferivo rispondendo al quesito, è sicuramente giusto riferirsi alla tradizione più recente, una tradizione connotata da un’opera esplicitamente volta alla creazione di una ginnastica da proporre alle masse. Se intendiamo, invece, una pratica marziale più reale, direi che, paradossalmente, oggi ciò che si avvicina maggiormente alla tradizione è la pratica sportiva, la quale si caratterizza per il continuo confronto, che a livelli elevati richiede da parte del praticante grossi sacrifici e totale dedizione, tanto da ricordare la vita degli antichi guerrieri.
M° Enrico VIvoli
Nel celebre libro di Hermann Hesse la descrizione di ogni dialogo tra Govinda e Siddharta è l'espletarsi dell'amicizia in senso puro, intendendo, per amicizia, quel luogo del cuore e del pensiero che accoglie un sentimento sempre aperto al confronto. L'amico, in sostanza, è qualcuno con cui si possono discutere molti temi: dal significato di una vita da vivere nella sua irripetibilità, a partire dal singolo istante, fino all'ostacolo che talvolta il linguaggio può rivelarsi rispetto alla purezza della sensazione. Inoltrandosi persino nella quarta dimensione, il tempo, fatto di istanti che sono parti essenziali del tutto.
Cercare, trovare, osservare con purezza
Nel libro di Hesse, Govinda, nonostante gli anni trascorsi nella ricerca, continua a manifestare la sua curiosità il suo bramoso e irrisolto desiderio di cercare. La lunga ricerca, cercare, a tutti i costi, distoglie dalla reale consapevolezza. In un frammento preciso del testo, il barcaiolo apre il discorso sottolineando quanto, se si vuole realmente trovare, sia importante la capacità di vedere. Di seguito, Siddartha precisa come cercare e trovare siano due cose diverse. Esalta poi l’importanza dello stato di osservazione pura, tipica dei bambini, intesa come la capacità di osservare e di vedere quello che ci circonda, non lasciarlo sfuggire dopo una rapida occhiata, di farlo proprio.
Irripetibilità dell'esistenza e visione consapevole
Il tema è molto complesso, richiama al significato di una vita unica, la capacità di vivere in un mondo che può sembrare uguale per tutti ma che, in realtà, l’uomo può acquisire come proprio; ognuno, infatti accede alla realtà tramite l’esperienza della propria vita e ha la capacità, anzi, il dovere, di percepire in profondità ciò che lo circonda.
La sfida è la capacità di comprendere a pieno -ognuno in relazione al proprio sé- ciò che fa parte del proprio cosmo. La pressione della società, dei sistemi globali ha, infatti, troppo spesso portato l’individuo alla rinuncia di un pensiero personale, a un osservazione unica, in relazione all’io unico e al momento, in cambio di un pacchetto preconfezionato di concetti definitori che rendono l’insieme degli individui facilmente controllabili e gestibili.
Continua Siddartha: la saggezza non è comunicabile a parole. La capacità di vedere, del reale vedere, fa sì che un uomo possa, nel suo intercedere quotidiano, imbattersi in ogni istante in incontri unici, scambi di rara intensità e profondità. L’osservazione, il reale vedere un fiore può permettere a ognuno di noi di cogliere quella unicità assoluta e irripetibile, data dalla bellezza di un’esistenza reale ed irripetibile. Quante volte nella vita di tutti i giorni, fatta di corse, di stress, doveri (reali?), passiamo di fronte a dei fiori? Quante volte abbiamo la possibilità di percepirne la vera, sostanziale ed unica esistenza? Quante volte abbiamo la possibilità di commuoverci per quella eccezionale e splendida rappresentazione di vita?
Spesso tiriamo avanti, accecati dalla nostra frenesia, dalla necessità di soddisfare
un sistema padrone che abbisogna di ciechi e dediti adepti che seguano la dottrina
preconfezionata, illusi di trovare un meschina sicurezza nel vivere il bieco
conformismo. La capacità di vedere consapevolmente, se viene assunta costantemente,
apre all’uomo nuove prospettive, conferisce a ciascuno la possibilità di essere
arbitro della propria esistenza, di compiere i propri e originali passi, nella
relativa esistenza di un singolo, che sarà unicamente e assolutamente originale,
irripetibile.
Tutto ciò ci discosta dal dono divino della vita, ma se l’osservazione è
individuale, originale, chi può insegnarla? Siddharta mette in guardia Govinda:
tutto ciò non puo’ essere trasposto con mere parole, il rischio è di essere
incompresi, di sembrare dei folli. O solo diversi e unici?
Linguaggio e purezza della visione
Il colloquio tra i due amici continua sullo stesso tema, visto dalla prospettiva della comunicazione e dei suoi limiti. Il linguaggio è il frutto di una convenzione definitoria, di una classificazione concettuale, caratterizzata da tutti i limiti che derivano dalla necessità di racchiudere sensazioni ed emozioni originali in categorie. E’ evidente il limite di tale processo ed il nocumento che ne deriva alla purezza della sensazione. Questo meccanismo troppo spesso, nell’uomo, trasla dalla comunicazione al pensiero, e, per il sistema dominante, è estremamente facile annullare i pensieri originali di ognuno, per sostituirli in qualcosa di simile, ma che ha il pregio (difetto?) di essere facilmente etichettato e, di conseguenza, controllato.
Relatività, relatività unica, tempo
Prosegue il discorso accentrandosi sul concetto di relatività. I fenomeni della vita non possono essere definiti solo bianchi o neri, buoni o cattivi, in essi coesistono molteplicità di aspetti. Si esprime il concetto di relativo-assoluto secondo il quale ogni fenomeno quotidiano è percepito da ognuno nella propria relativa assolutezza. Tutto ciò richiama alla filosofia taoista che propugna il concetto della accettazione della vita e dei suoi infinti aspetti per quello che sono; nell’accettazione della diversità e unicità, nella comprensione del momento unico e irripetibile.
Consequenzialmente Siddharta inquadra il tema della relatività unica, introducendo il concetto, già più recentemente espresso da Albert Einstein. Il pensiero della quadridimensionalità della nostra esistenza. E’ intuibile, infatti, che i fenomeni che guidano la nostra vita sono collocati e percepibili a pieno su quattro dimensioni. E’ altresì vero che all’uomo sfugge la capacità di vivere la quarta dimensione: il tempo. La nostra capacità in tal senso è paragonabile a quella di un ombra che provasse a percepire la terza dimensione. Nella percezione dell’unico istante per quello che è, simile ad infiniti altri, ma estremamente originale, Siddharta individua la collocazione dello stesso in una dimensione unica ed assoluta, che non possa, tenendo conto della sua storia e dei suoi riflessi antecedenti e posteriori sull’esistenza, essere pensato come finito, ma piuttosto che possa essere percepito come una parte essenziale del tutto, presente in eterno.
M° Enrico VIvoli
Molto frequenti sono, oggi giorno, le offerte di corsi finalizzati allo sviluppo di una capacità di autodifesa, una domanda sorge spontanea: tali corsi riescono a realizzare tale finalità? Ed eventualmente in quale misura? Come valutare la funzionalità del corso proposto?
Lo sviluppo di un attitudine marziale reale, per mezzo di tecniche appositamente ideate, richiede sicuramente molto tempo ed impegno, ma quanto? La risposta, in primo luogo, è relativa ad una serie di parametri iniziali di riferimento quali le capacità individuali del praticante (età, capacita fisiche, psichiche, ecc) e la individuazione del livello considerato accettabile.
Questa prima considerazione evidenzia come, essendo le variabili individuali molteplici, un approccio corretto dovrebbe essere il più possibile soggettivo. In altre parole, il taglio tecnico-atletico-psicologico dovrebbe essere studiato in modo speciale per il singolo praticante. E' come per i vestiti, l'ideale è quello di disporre di un sarto che sappia cucire addosso ad ognuno il proprio vestito; deve essere il vestito ad adattarsi alla persona! Allo stesso modo l'approccio tecnico dovrà adattarsi al praticante, tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche.
Questa prima conclusione porta ad affermare che un buon insegnante dovrà, quindi, tener conto dei singoli, e, se ne è in grado, adattare la propria conoscenza per creare di volta in volta “il vestito giusto”. La proposizione di corsi ed insegnamenti stereotipati, ad avviso dello scrivente, porta a risultati modesti.
Altra conseguenza di quanto sopra detto è che saranno da prevedere momenti di lezione individuale, da alternare a lezioni di gruppo, dove lo studente marziale potrà testare le capacità acquisite mediante il confronto con altri adepti.
Un ultima considerazione sul tema del relativismo tecnico: sono presuntuose – o frutto di ignoranza – le affermazioni per le quali la tale arte marziale sarebbe migliore/più efficace dell'altra. E', infatti, evidente come l'arte marziale “giusta” sia diversa per ognuno, proprio come il vestito del sarto, per me potrebbe essere più funzionale il karate ma per un altro potrebbe essere la lotta libera.
Quello che è di grande importanza è riuscire ad individuare la propria arte marziale e praticarla al meglio delle proprie possibilità sotto la guida, possibilmente, di insegnanti adeguatamente preparati.
Il secondo aspetto utile a determinare l'impegno necessario, è quello dell'esatta individuazione dell'obbiettivo. E', infatti, chiaro che se il fine è quello di aumentare di un minimo le possibilità reazione in una situazione di potenziale pericolo fisico, può essere sufficiente 20 ore di lezione, le quali saranno volte prevalentemente a stimolare un livello di attenzione e un'attitudine comportamentale improntati alla sicurezza di se stessi in situazione di pericolo (distanza di sicurezza, capacità di evitare il conflitto, di valutare la pericolosità del potenziale aggressore, ecc).
Altra è la risposta se l'obbiettivo è quello di sviluppare una capacità marziale da testare continuamente mediante il confronto – combattimento libero – con altri adepti. Tale obbiettivo porterà, inevitabilmente, ad una strada lunghissima e bellissima, per alcuni infinita; finirà, infatti, solo quando il guerriero, essendo riuscito, infine, a vincere se stesso, non avrà più necessità di confrontarsi.
Al fine di tentare di dare una risposta al terzo quesito iniziale – come valutare un corso – di seguito si elenca, brevemente, quattro valenze fondamentali che qualsiasi studio finalizzato all'apprendimento marziale dovrà sviluppare ed evolvere.
1. Preparazione atletica e condizionamento fisico: è evidente che la capacità di reagire in maniera adeguata alle più disparate e spesso imprevedibili forme di aggressione non può prescindere da una adeguata preparazione del nostro corpo. Dobbiamo, infatti, tenere presente che ogni nostra azione si avvale del nostro io fisico, ed è chiaro che se esso è pronto ed allenato i risultati saranno ottimali. Inoltre, la consapevolezza di un adeguato stato corporeo andrà ad incidere sulla nostra emotività dandoci sicurezza.
Parallelamente alla preparazione puramente atletica il praticante dovrà abituare la propria mente alle sensazioni che potranno essere inviate dal fisico quando questo si troverà in situazioni di particolare difficoltà. Dovrà così, per quanto possibile essere allenata la capacità di convivere, in certi momenti, con il dolore e la fatica.
2. Sviluppo delle capacità coordinative: di fondamentale importanza, affinché la nostra reazione possa risultare efficace, è il possesso di un adeguato controllo corporeo. Ogni potenziale aggressione è, infatti, un evento a se stante unico ed irripetibile. La situazione, così come ricostruita nella fase allenante, non sarà mai esattamente la stessa di quella reale. Per questo è necessaria un elevata capacità coordinativa che ci consenta di adattare le nostre conoscenze tecniche alla situazione di specie, adattamento che dovrà compiersi in frazioni di secondo.
3. Sviluppo del proprio controllo emotivo: la capacità di mantenere il controllo sulla propria emotività è presupposto essenziale affinché sia possibile sfruttare le potenzialità di difesa acquisite con l’allenamento degli altri fattori. E’ evidente che se il panico, una pulsione aggressiva, l’insicurezza o anche un eccesso di sicurezza dovessero avere il sopravvento, la possibilità di compiere azioni errate e inadeguate saranno elevatissime. Mediante la pratica regolare delle arti marziali è possibile migliorare quotidianamente le nostre capacità di autocontrollo, così come la propria autostima.
4. Studio della tecnica marziale: la capacità di reagire ad una situazione di difficoltà non potrà prescindere dall’apprendimento di un bagaglio di tecnica marziale, che quanto più sarà ampio tanto più permetterà al praticante preparato di poter scegliere tra un ventaglio di possibili reazioni quella più efficace nel momento specifico.
Concludo sottolineando come il punto quattro sia realisticamente funzionale solo se sono state evolute le altre capacità, ricordando che la tecnica è un mero strumento, peraltro, stereotipato alla situazione ideale (sempre diversa da quella reale), e che per un efficace utilizzo della stessa dobbiamo aver la capacità di riadattarla al contesto in essere, tale capacità è strettamente legata allo sviluppo delle prime tre capacità su elencate.
M° Enrico VIvoli